(Lettera Napoletana) (di Lucio Militano) – L’immagine di copertina del libro di Enzo Ciconte, docente di “Storia della criminalità organizzata” all’Università Roma Tre, ed ex deputato del Pci, è un capolavoro di comunicazione grafica: una piovra dagli occhi rossi e minacciosi avvinghia una bandiera italica con lo stemma sabaudo.

Il titolo è “Borbonici, patrioti e criminali. L’altra storia del Risorgimento” (Borbonici, è scritto a carattere molto più grande ed evidente, virgola compresa).

Si tratta di una pubblicazione della collana “Aculei”, diretta dal multiforme e multipresente storico Alessandro Barbero, il quale ha capito che per vendere libri bisogna cominciare a raccontare la Storia in modo diverso da quello ufficiale. E mafia e camorra sono argomenti sempre molto stimolanti, soprattutto se frammisti all’immaginario collettivo di un Risorgimento tutto eroico, patriottico e puro e dei Borbone retrogradi, reazionari ed antitaliani.

La grossa piovra nera, che richiama “Borbonici”, si configura – secondo Ciconte – come una piaga che il nuovo Stato aveva ereditato dai quei sovrani e dal loro scellerato modo di governare.

Nell’introduzione del libro (Salerno Editrice, Roma 2016) si plaude alla vittoria dei “patrioti” che hanno installato la dinastia savoiarda sul trono d’Italia, ma l’autore sembra ignorare che ben altre forze destabilizzatrici, ben altri interessi, ben altre manovre diplomatiche ed interventi militari stranieri hanno consentito il realizzarsi del processo unitario.

Il primo capitolo è intitolato: In principio erano i Borbone, a ribadire che il peccato originale, la piovra nascente, è pur sempre nella dinastia napoletana.

L’autore comincia la sua storia raccontando di “delinquenti e tagliagole sanfedisti” che al seguito del Cardinale Fabrizio Ruffo conclusero la “breve e gloriosa esistenza” della Repubblica Partenopea.

Prosegue, con una serie articolata e disomogenea (un po’confusa) di testimonianze, rapporti, citazioni dalle quali si evincono cose già note e cioè che la camorra fosse, nel Regno delle Due Sicilie, una forma di delinquenza tendenzialmente non strutturata e circoscritta, usata talvolta per delazioni e controllo di piccoli reati laddove la polizia ordinaria controllava e monitorava l’ordine pubblico ed i reati politici. Ciò è fisiologico in qualsiasi forma di potere di qualsiasi genere e di tutti i tempi: gli elementi malavitosi sono stati spesso utilizzati nella scoperta delle attività illegali e sovversive. E tuttora lo sono.

Una criminalità tuttavia mai partecipe agli affari di Stato e collusa nelle attività economiche, industriali, politiche; del resto la floridezza economica del Regno e la grande quantità di investitori stranieri ivi definitivamente trasferitisi dimostrano la complessiva tranquillità e rispetto dell’ordine pubblico presenti.

La situazione della Sicilia era assai più complessa: le forti tendenze separatiste dell’isola favorivano l’insorgere di forme mafiose più strutturate e politiche, che un re autoritario e determinato come Ferdinando II seppe sempre mantenere in limiti accettabili. E, quando fu necessario, non mancò l’intervento armato.

È da notare che nella stessa Sicilia più volte, dopo l’unità, si ebbero gravi fenomeni di ribellione.

Dopo il 1848, Ferdinando II decise (ed è ampiamente dimostrato) di avviare una sistematica opera di repressione dei camorristi; egli aveva intuito che fra le sette liberali e la camorra era nata una sorta di alleanza favorita da forze esterne che avevano l’obiettivo di destabilizzare il Regno: la camorra diventa liberale e si mette al servizio del movimento costituzionale, intuendo che quel potere (che prima o poi si sarebbe costituito) sarebbe stato così debole e caotico da poterlo manipolare e dirigere, cosa impossibile con un sovrano assoluto e determinato come Ferdinando II.

Il saggio di Ciconte continua con il capitolo Arriva Garibaldi”, nel quale si cita il massacro di Bronte e, a onor del vero, l’autore esprime un parere negativo sulla “piemontesizzazione” delle terre occupate, sulla legge Pica e sulla repressione del brigantaggio. Ma su questi temi nessuno storico che si definisca tale potrebbe esprimere parere diverso da quello di una condanna senza attenuanti.

Quando viene affrontato l’argomento Liborio Romano, si percepisce una sorta di giustificazione relativa dell’agire di questo personaggio, che Nico Perrone descrive “grande interprete di trasformismo”, ma che in realtà era solo un traditore opportunista.

Egli si materializza al potere nel giugno del 1860, al momento della concessione della Costituzione da parte di Francesco II, come Prefetto di Polizia e poco dopo diventa Ministro dell’Interno.

Uomo della camorra liberale, già da tempo in contatto con Cavour e Garibaldi, il suo obiettivo è preparare l’ingresso di Garibaldi a Napoli, cosa che farà regolarmente accogliendolo poi alla stazione il 7 settembre 1860. L’uomo di Patù non è un fedele suddito della dinastia, infatti Ferdinando II lo ha tenuto in carcere per tre anni. L’autore conferma il fatto che Liborio Romano sia sceso a patti con la camorra, trasformando incalliti criminali in forza dell’ordine armata e repressiva contro la forte componente lealista presente nella capitale.

Poi le accuse ai Borbone continuano.

Ciconte sembra sposare la tesi di Nico Perrone che vorrebbe Francesco II concorde e approvante la manovra di Liborio Romano, quindi il sovrano sarebbe l’unico responsabile del salto di qualità dell’organizzazione criminale che, con coccarde tricolori, nodosi bastoni, coltelli e pistole, governò di fatto Napoli, acquisendo sempre più potere e macchiandosi dei crimini più atroci. Ma quest’ipotesi di coinvolgimento del re non è dimostrata da alcuna fonte, a parte una breve citazione di note di Perrone.

L’atteggiamento di preoccupazione di Francesco II nei riguardi della camorra cosiddetta liberale è ben documentato – invece – nei rapporti con l’ambasciatore austriaco, Giuseppe de Martini, a fine 1859 e a luglio 1860 l’ambasciatore britannico a Napoli, Henry Elliot, informava il Foreign Office che bande camorristiche erano pronte a scendere in campo contro i fedeli alla dinastia borbonica.

Sempre Elliot annota che la consorteria criminale acquistò una potenza considerevole, destinata ad accrescersi negli anni successivi.

I Borbone talvolta – e con gran prudenza – avranno leggermente aperto il vaso di Pandora, ma seppero richiuderlo; quelli che vennero dopo lo aprirono definitivamente, lasciandolo senza coperchio.

Nel saggio di Ciconte forse il primo capitolo avrebbe dovuto essere “Arriva Garibaldi” e non al “Al principio erano i Borbone”.

L’ultimo capitolo del saggio si intitola “Al tempo dei Savoia”: non l’ho neanche letto, è cronaca. (LN111/17)

 

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