In occasione della celebrazione dei riti del Triduo Pasquale 2008, sono state rinnovate le polemiche in merito alla “Preghiera per gli Ebrei” che viene recitata il Venerdì Santo.
Da più parti, ma soprattutto da autorevoli esponenti delle Comunità Ebraiche, sono giunte vivaci reazioni e sono state sollevate critiche al testo che il Papa Benedetto XVI ha disposto per la celebrazione secondo il Messale Romano antico, in sostituzione di quello approvato nel 1962, che a sua volta aveva modificato quello previsto dall’Ordo Missae datato 1570.
Un po’ di storia
Il testo dell’Orazione solenne del Venerdì Santo del Messale Tridentino promulgato da San Pio V nel 1570 era il seguente:
«Oremus et pro perfidis Judaeis: Ut Deus et Dominus noster auferat velamen de cordibus eorum ut et ipsi agnoscent Jesum Christum Dominum nostrum.»
[«Preghiamo anche per gli infedeli Giudei perché Dio Nostro Signore alzi il velo che copre il loro cuore affinché essi pure possano riconoscere Gesù Cristo, nostro Signore.»]
La preghiera si riferisce ad un passo della seconda lettera di San Paolo ai Corinzi: «Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero. Ma le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto» (2 Corinzi, 3, 12-16).
L’espressione perfidis Judaeis contenuta nell’orazione è stata oggetto di aspri contrasti, rinfocolati anche in occasione della pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, benché inopportunamente, poichè essa non compare nel Messale del 1962, al quale rimanda il documento di Benedetto XVI.
L’indice era puntato sul termine perfidis, tradotto in italiano con perfidi, cui sono stati attribuiti un significato dispregiativo e un’intenzione offensiva nei confronti degli Ebrei, che avvalorerebbero la tesi di un preteso atteggiamento “antigiudeo” della Chiesa Cattolica. L’interpretazione è totalmente errata sia sul piano linguistico che dell’intenzione con la quale la preghiera viene recitata. Per fare chiarezza bisogna andare all’etimologia dell’aggettivo latino perfidis.
Nel Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani (I Dioscuri, Genova 1988), uno dei maggiori dizionari, accreditato anche presso la Biblioteca dell’Accademia della Crusca, si legge la seguente definizione:
«Pèrfido: dal latino Perfidus composto di PER = per, tra, indicante passare al di là, trasgredire ed anche determinante un senso opposto alla voce cui è unito; e FIDES = fede.
Che manca di fede, disleale e, anche, malvagio. Derivati: Perfidamente, perfidezza, perfidia, onde perfidiare = ostinarsi a non voler cedere alla verità, e perfidioso = ostinato».
Pertanto, il corretto significato dell’espressione latina “Oremus et pro perfidis Judaeis” è “Preghiamo per gli Ebrei infedeli” (poiché non credono in Gesù Cristo, Figlio di Dio).
L’accezione negativa del termine perfido, inteso nel senso di malvagio, secondaria rispetto all’etimologia originaria, infatti, è invalsa soltanto nell’italiano moderno, per traslazione del significato. Soprattutto, non appartiene alla lingua latina, tanto meno a quella del ‘500, epoca in cui fu stabilito il canone della Messa Tridentina.
Ad ulteriore conferma della inopportunità delle ricordate polemiche, va rilevato che l’aggettivo perfidis era già stato soppresso a partire dal 1960, sotto il pontificato di Giovanni XXIII, proprio a causa della sua scorretta traduzione nelle lingue volgari.
Infatti, la S. Congregazione dei Riti aveva rilevato che in molti messalini bilingue, non soltanto italiani, il termine veniva tradotto appunto con l’aggettivo perfidi inteso come malvagi.
Venne dunque sollevato il problema, sia per evitare malintesi dal punto di vista linguistico, ma soprattutto perché la traduzione risultava incoerente dal punto di vista teologico e fu suggerito l’uso di termini alternativi, con un più evidente significato di infideles, infideles in credendo.
Giovanni XXIII, ritenendo necessario sanare radicalmente l’equivoco, abolì del tutto l’uso dell’aggettivo con un documento del 19 marzo 1959. Una successiva lettera della S. Congregazione dei Riti (27 novembre 1959) modificò anche le formule del Rituale Romano del Battesimo riferite ai catecumeni provenienti dall’ebraismo e dall’idolatria, dall’islam o da sette eretiche. Tali modifiche entrarono poi a far parte del Messale promulgato con il Motu proprio Rubricarum Instructum, del 23 giugno 1962.
Benedetto XVI, con la Lettera Apostolica Summorum Pontificum, entrata in vigore il 14 settembre 2007, ha ripristinato pienamente la celebrazione del Rito Romano antico, disponendo l’uso del Messale riformato del 1962.
Infine, nell’imminenza della Pasqua 2008, ha modificato il testo della Preghiera per gli Ebrei con la seguente formula:
«Oremus et pro Iudaeis. Ut Deus et Dominus noster illuminet corda eorum, ut agnoscant Iesum Christum salvatorem omnium hominum.
Oremus. Flectamus genua. Levate. Omnipotens sempiterne Deus, qui vis ut omnes homines salvi fiant et ad agnitionem veritatis veniant, concede propitius, ut plenitudine gentium in Ecclesiam Tuam intrante omnis Israel salvus fiat. Per Christum Dominum nostrum. Amen.»
[«Preghiamo per gli Ebrei. Il Signore Dio Nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini. Dio Onnipotente ed eterno, Tu che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, concedi propizio che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo. Per Cristo Nostro Signore. Amen»]
Le reazioni
Le critiche periodicamente sollevate in diversi ambienti circa la Preghiera per gli Ebrei, da alcuni anni non si soffermano più sui termini utilizzati, ma sull’opportunità di una simile orazione. In pratica, si afferma, e non solo da parte ebraica, che la Chiesa Cattolica non avrebbe affatto il diritto di pregare per la conversione dei credenti di altre fedi, perché ciò lederebbe la dignità di questi ultimi, mettendo inoltre in discussione il fondamento del dialogo tra religioni, e cioè il riconoscimento dell’altro e delle sue diversità.
Si pretende, in buona sostanza, l’applicazione di una sorta di politically correctness ai riti di una religione e, di conseguenza, ai principi e agli insegnamenti che ne sono all’origine. Questa posizione contiene preoccupanti elementi relativistici.
Per i cattolici, pregare per coloro che non credono in Gesù Cristo – atei, agnostici, pagani, aderenti a sette e movimenti o a religioni monoteiste diverse – è una forma di carità esplicitamente richiesta dal magistero evangelico, che va estesa persino ai nemici ed ai persecutori[1], perché tutti possano giungere alla salvezza mediante l’Incarnazione, la Passione, la Crocifissione e la Resurrezione del Signore Gesù Cristo.
L’orazione solenne del Venerdì Santo, dunque, è l’espressione della fiducia nella Divina Misericordia e della fraterna sollecitudine verso gli uomini: in nessun modo può ledere la dignità di alcuno, considerando, piuttosto, tutti gli uomini capaci di riconoscere il Bene assoluto e di rendergli gloria.
Del resto, la Chiesa Cattolica non è la sola a ricordare nei propri riti coloro che considera infedeli. La pratica è comune anche ad altre fedi, compresa quella ebraica, e più volte è stata motivo di diatribe, con reciproci scambi di accuse e giustificazioni.
Per limitarci alla liturgia sinagogale, ad esempio, fa da contraltare all’orazione cattolica tanto vituperata, la birkat ha-minim, cioè la “benedizione contro gli eretici”. Essa fa parte dell’Amidah, una preghiera ripetuta più volte al giorno, detta anche Shemonè esrè, ossia “diciotto”, dal numero delle benedizioni recitate anticamente aumentato in seguito a diciannove, con variazioni legate ai giorni della settimana.
Nella formulazione più antica, oggi ripresa da più parti, questa particolare “benedizione”, la numero XII, recita:
«Che per gli apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell’orgoglio; e periscano in un istante i nazareni (i giudeo-cristiani, ndr) e gli eretici: siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano iscritti. Benedetto sei tu che pieghi i superbi».
Il testo precede di molto la nascita di Cristo e l’invettiva che contiene era dapprima limitata agli eretici (minim). Quando però il cristianesimo cominciò a diffondersi, l’invettiva fu estesa ai nazareni (ntzrim), cioè ai seguaci di Cristo, sembra con l’intenzione di espellerli dalle sinagoghe, che fino a quel momento essi continuavano a frequentare secondo l’uso giudeo-cristiano.
Attualmente, è più diffusa la formula del Talmud babilonese: «Per i calunniatori e gli eretici non vi sia speranza, e tutti in un istante periscano; tutti i Tuoi nemici prontamente siano distrutti, e Tu umiliali prontamente ai nostri giorni. Benedetto Tu, Signore, che spezzi i nemici e umili i superbi».
Non è azzardato affermare che, anche se nella versione più moderna l’accenno esplicito ai nazareni non è più presente, il senso della preghiera non è mutato né l’atteggiamento che essa esprime verso chi non appartiene alla fede ebraica, ben diverso da quello espresso nella preghiera della liturgia cattolica.
Non si possono concludere queste brevi note senza una riflessione circa il “dialogo tra religioni” che, si dice, non può prescindere dal riconoscimento dell’altro e delle sue diversità. In nome del dialogo, si dice, i cattolici sarebbero tenuti unilateralmente a modificare il testo liturgico pasquale per non urtare la sensibilità altrui.
Dialogo, nel senso classico del termine, non ha un significato irenistico e relativistico, ma ha significato di confronto nella ricerca della verità. Il dialogo non è la misura della verità, viceversa da essa si lascia misurare e presuppone la disponibilità ad accettarsi reciprocamente nella verità.
Ora, per i cristiani è verità di fede ciò che Giovanni scrive nel Prologo del suo Vangelo (Gv. 1, 10-18), a proposito del Signore Gesù Cristo:
«Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di Lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente,
ma i suoi non l’hanno accolto.
A quanti però l’hanno accolto,
ha dato il potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali non da sangue,
né da volere di carne,
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati. […]
perché la legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno l’ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito,
che è nel seno del Padre,
lui lo ha rivelato».
[1] Cfr. Mt. 5, 43-48: «Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo” e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.»