Una pagina davvero poco conosciuta della storia delle Insorgenze controrivoluzionarie che tra il 1796 e il 1799 infiammarono tutta la Penisola, per opporsi all’invasione francese e all’insediamento di governi rivoluzionari guidati da traditori giacobini locali.
La rivolta dei “Viva Maria”, in Toscana, testimonia che l’elemento propulsore e unificatore delle sollevazioni popolari scoppiate i tutti gli Stati preunitari fu la difesa della Religione Cattolica e dei troni tradizionali. L’articolo che segue è firmato da Massimo Viglione, docente presso la cattedra di Storia Moderna dell’Università di Cassino, autore e curatore di numerosi testi sulle insorgenze del 1799, ed è apparso sul numero di gennaio 2008 del mensile Radici Cristiane.


 

La conoscenza della storia della grande rivolta anti-illuminista prima, antigiacobina poi, in una parola, controrivoluzionaria, avvenuta in Italia durante gli anni della Rivoluzione Francese e dell’invasione napoleonica, va ormai sempre più affermandosi nonostante la congiura del silenzio di cui per decenni e decenni è stata vittima. Questo anche grazie a tutta una serie di pubblicazioni e al succedersi di innumerevoli convegni tenutisi in ogni angolo della Penisola, soprattutto a partire dal bicentenario di tali eventi (1996). Tutta la Penisola insorse contro l’invasore napoleonico, venuto a imporre con le baionette e la ghigliottina le idee di democratismo repubblicano e laicismo anticattolico della Rivoluzione Francese. Gli italiani insorsero a difesa della propria civiltà, allora monarchica, sacrale e profondamente cattolica.

Insorgenze controrivoluzionarie vi furono in tutti gli Stati preunitari, al grido collettivo di “Viva Gesù”, Viva Maria”, “Viva il Papa” o “l’Imperatore” o “il Re”, “Viva san Pietro”, ecc., al seguito sovente di stendardi regali e imperiali o di immagini sacre della Vergine o dei santi, a volte guidate da sacerdoti ed ecclesiastici (fra cui il celebre cardinale Ruffo, a capo dell’”Armata Cristiana e Reale della Santa Fede” nel Meridione).
Si trattò di rivolte popolari e spontanee, causate della guerra che la Rivoluzione, precipitata in Italia con la sua tipica violenza e intolleranza, aveva portato contro la Chiesa, la Fede e i legittimi secolari governi (oltre che contro le tasche degli italiani, e contro i loro inesauribili tesori artistici).

Si calcola oggi che insorsero in armi contro i francesi e i giacobini locali fino a 300.000 italiani, e ne morirono non meno di 100.000!
Una epopea del nostro popolo tanto gloriosa e tragica quanto sconosciuta. Il perché è facile da capire per chiunque: gli italiani di quei giorni insorsero… dalla parte sbagliata… contro il “progresso” laicista in difesa della tradizione cattolica e della Chiesa.
Pertanto, hanno meritato il silenzio della storia.

Le prime insorgenze
Ad Arezzo e in Toscana, nel 1799, si svolse una delle pagine più gloriose di tutta la storia della Controrivoluzione italiana.
Premettiamo che i toscani furono i primi della storia italiana ad insorgere contro i lumi del “progresso” che venivano dalla Francia di Voltaire e Rousseau. Ciò accadde ancor prima del 1789, quando un vescovo eretizzante, il giansenista Scipione de’ Ricci, tentò per ben due volte (‘87 e ‘90) nella sua diocesi di Prato e Pistoia di abolire il culto delle reliquie, il culto pubblico alla Madonna, tolse gli altari laterali nelle chiese, e tentò perfino l’avventura dello scisma da Roma. Fu entrambe le volte riportato ai miti consigli dalle popolazioni toscane, che non esitarono ad assaltare la diocesi, fino a costringerlo alla fuga definitiva.

Nel 1796 arrivarono poi i napoleonici, ma non invasero immediatamente il Granducato di Toscana (al contrario di quanto accadde agli altri Stati della Penisola). Questo fu di fatto conquistato per ultimo, solo nella primavera del 1799, proprio mentre tutto il resto della Penisola, sotto il tallone francese (eccetto il Triveneto), insorgeva in armi contro l’invasore.
I napoleonici, appena insediatisi a Firenze e ovunque nel Granducato, iniziarono la loro usuale politica di spogliazioni economiche indiscriminate e di fiscalismo esorbitante. né vennero meno alla costante usanza di rubare le meraviglie dell’arte dalle chiese, dai palazzi e dai musei. Inoltre, neanche in Toscana mancarono le offese alla fede, gli oltraggi alle chiese e al clero, la politica di laicizzazione dello Stato.

Per qualche settimana i toscani sopportarono. Poi in aprile vi furono le prime insorgenze sparse localmente in alcune città. prime scintille del grande fuoco che stava per divampare. Ma l’esplosione doveva avvenire ad Arezzo, e fu un’esplosione che portò alla Controrivoluzione generale e alla riconquista del Granducato.

La Vergine del Conforto e i “Viva Maria”
Arezzo era una città particolarmente legata ai Lorena (a differenza di tante altre zone toscane nostalgiche dei Medici), i quali l’avevano sgravata delle sovrattasse medicee, ed avevano iniziato la bonifica della Val di Chiana.
Ma soprattutto gli aretini erano fortemente religiosi, e questa loro devozione si era accresciuta particolarmente dal 1796, quando il volto di un’immagine della Vergine, conservata nel Santuario della Grancia, ospizio dei Padri Eremitani di Camaldoli a Porta San Clemente, fu visto irradiare luce, da nero divenendo bianco, durante un pellegrinaggio effettuato il 15 febbraio 1796 con lo scopo di ottenere la grazia della sospensione delle scosse di terremoto che si erano succedute negli ultimi giorni. L’immagine fu subito intronizzata nella cappella centrale del Duomo (dove è ancora oggi), e le fu attribuito il titolo di “Madonna del Conforto”.

Quando Arezzo venne occupata ai primi di aprile dai francesi e cisalpini, iniziarono subito gli insulti alla religione cattolica, e in più si obbligavano tutti gli abitanti a portare la coccarda tricolore, ai canonici si proibiva di indossare il loro colore distintivo, il paonazzo, si atterravano gli stemmi gentilizi dalle case, le iscrizioni ed ogni altro segno di distinzione, si ponevano giansenisti nelle cariche pubbliche, arrivando perfino ad arruolare forzatamente il clero nella guardia nazionale, anche nelle mattine di festa!
Si può facilmente immaginare lo stato d’animo degli aretini.

La notte del 5 maggio tutte le colline antistanti la città erano piene di fuochi, sia per festeggiare il genetliaco di Ferdinando III, sia per la notizia dell’avvicinamento degli eserciti austro-russi.
La mattina del 6 maggio centinaia di contadini erano entrati in città con intenzioni non molto pacifiche. Verso le ore otto accadde l’episodio decisivo: dalla Porta di Santo Spirito entrò una carrozza, guidata da un vecchio contadino, sulla quale sedeva una signora con in mano una bandiera imperiale austriaca; alla vista della bandiera la gente iniziò ad urlare “Viva Maria!”; la carrozza fece un rapido giro per la città, fomentando ovunque l’entusiasmo, e quindi uscì da dove era entrata.

Rapidamente si sparse la voce che sulla carrozza vi erano San Donato e la Vergine del Conforto in persona; tanto bastò a far iniziare senz’altro l’insorgenza. Immediatamente fu abbattuto ed incendiato l’albero della libertà, al posto del quale fu innalzata una croce, liberati i prigionieri, arrestati i giacobini, rialzate le armi granducali, e tutta la città si adornò di bandiere toscane, pontificie ed austriache, mentre le campane suonavano a martello ovunque per invitare i contadini alla controrivoluzione.

I francesi tentarono una formale resistenza, ma dopo un breve scambio di fucilate, che procurarono due morti e numerosi feriti, abbandonarono velocemente la città. Arezzo rimase così in mano agli insorgenti, e il 7 maggio, dopo una solenne cerimonia di ringraziamento nel Duomo ed una processione nella quale furono portati oltre alle sacre
immagini i ritratti del Granduca e della consorte, fu eletta una Giunta Civile.
Le forze degli insorti furono divise in compagnie ciascuna di 130 uomini, più un corpo di cavalleggeri, formato per lo più da giovani aristocratici.

Il piccolo esercito improvvisato divenne in breve un esercito vero, per via della ferrea organizzazione militare e logistica. Si fecero anche delle bandiere, che avevano i colori regolamentari delle truppe granducali e dello Stato toscano: il cam po giallo circondato di nero o quello bianco circondato di rosso, mentre le scritte erano sempre dedicate o alla Vergine del Conforto, proclamata ufficialmente “Generalissima dell’Armata”, o a San Michele Arcangelo, “Protettore del nostro paese, in atto di fulminare il demonio”.

Gli uomini senza uniforme indossavano la coccarda, il “brigidino” rosso-bianco o giallo-nero con l’immagine impressa sul petto della Vergine del Conforto e dell’aquila bicipite imperiale, dalle due teste coronate. Nei momenti di massi mo sforzo militare, l’esercito controrivoluzionario giunse a contare circa 38.000 uomini, reclutati per lo più fra gli abitanti del territorio aretino e di quelli circostanti, ma non si arrivò mai ai criteri di una leva di massa. Era pronto l’esercito per la riconquista del Granducato!

La riconquista del Granducato
Lo stesso giorno del 6 maggio insorse anche Cortona, ove fu abbattuto l’albero della libertà, imprigionati i francesi ed iniziata una caccia al giacobino; quindi i contadini della Val di Chiana, del Casentino, delle alture della Verna, che armi in pugno
inseguivano per le vallate i francesi ed i giacobini; saputo ciò, gli aretini si misero in marcia per raggiungere i luoghi delle rivolte.
In poco tempo ad Arezzo convenne un esercito di 18.000 uomini, il cui comando supremo fu assegnato al cavaliere gerosolimitano G.B. Albergotti. Gli insorgenti non tardarono a passare ai fatti. Si assalì e conquistò Cortona, quindi si marciò su Siena, che fu presa d’assalto.

Nel frattempo insorgevano in armi decine e decine di cittadine ed intere vallate, come il Casentino, la Val d’Orcia, la Val d’Orbia, la Val di Chiana e la Val d’Arno.
Dopo la conquista di Siena, l’intero Granducato era ormai insorto in armi, e ogni cittadina esortava gli aretini ad arrivare e prendere possesso della municipalità. Così, di città in città, l’ “Inclita Armata della Fede” (così venne chiamata) giunse in poche settimane a marciare su Firenze, mentre i francesi fuggivano miseramente verso il Nord.

Il 7 luglio, al grido di “Viva Maria!”, l’Inclita Armata entrò in trionfo nella capitale. Vittorio Alfieri, attesta in una sua lettera che l’entusiasmo era alle stelle, e grandi furono i festeggiamenti.

Generosi fino in fondo
Riconquistato il Granducato, gli aretini avrebbero potuto godersi la loro gloria in pace in attesa del ritorno dei Lorena. Invece decisero di non sciogliersi, e continuare la guerra di liberazione nello Stato Pontificio. Dapprima riconquistarono molte città dell’Umbria, poi volsero verso Viterbo, infine verso Roma, ove parteciparono alla riconquista, avvenuta il 30 settembre, della Città Eterna insieme alle truppe della Santa Fede del Cardinale Ruffo e agli inglesi.
Alla fine del 1799 l’Italia era libera dai francesi: si tratta della più gloriosa pagina della storia nazionale degli italiani. Nel 1800 però Napoleone, con la vittoria di Marengo, ricominciò la progressiva conquista della Penisola.
Allora gli aretini tornarono di nuovo in armi per altri due anni, combattendo eroicamente contro i napoleonici. Ma, come è noto, nella vita certe cose… “riescono una volta sola”… e così questa ultima rivolta andò a finire nel 1801 senza un esito positivo.

Rimane però la gloria che il popolo aretino si è per sempre conquistato con il suo eroico e disinteressato servizio alla causa della Chiesa e della civiltà cristiana in Italia.

Rimane anche il dispiacere che in tutta Arezzo non vi sia una Piazza o via o anche un semplice monumento a memoria di tutto questo: vi era stato posto dalla precedente giunta di centro-destra in occasione del bicentenario, ma l’attuale, di centro-sinistra, ha pensato bene di toglierla.

Il silenzio deve continuare…