Il ’68

Per tutto il mondo occidentale, dall’una all’altra sponda dell’Atlantico, il 1968 è stato l’anno in cui ha cominciato a diffondersi e radicarsi quella che il pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira aveva definito, con profetica lungimiranza, la Quarta Rivoluzione. L’ultima tappa del processo sovvertitore dell’ordine naturale, e di quello sociale che ne deriva, mira ad estendere i principi della rivoluzione in interiore homine, attaccando i gangli vitali stessi dell’essere umano.

Infatti, come il tronco di un albero può essere piegato, i suoi rami possono essere potati, i suoi frutti possono essere lasciati marcire e, ciò nonostante, l’albero continuerà ad essere ciò che è secondo la sua natura, così gli uomini possono essere piegati e assoggettati da idee e regimi che li costringono, in modi diversi, a vivere secondo principi contrari alla natura umana, che però, pur soffocata, rimane vitale e si rivela appena ne ha la possibilità. Quando invece sono attaccate le radici dell’albero e non portano più nutrimento ma veleno, soltanto allora esso diventa sterile, inaridito, e lentamente smette di vivere. È necessario, dunque, avvelenare le radici stesse dell’uomo perché inaridisca ciò che lo rende umano, ed esso diventi lentamente materia vuota e priva di vita.

La Quarta Rivoluzione è la fase in cui questo processo si va sviluppano e i suoi veleni hanno cominciato a diffondersi nel corpo sociale proprio a partire dal quel fatidico 1968. Quarant’anni dopo, in un anniversario celebrato come un evento epocale, ne proponiamo una lettura in chiave controrivoluzionaria attraverso gli articoli pubblicati su alcune riviste.

2 – La rivoluzione femminista

Tremate, tremate, le streghe son tornate!” era uno degli slogan più noti del movimento femminista degli anni ‘70 ed è riecheggiato nelle recenti manifestazioni in-difesa-della-194 (intesa come legge, quella sull’aborto, per capirci), durante le quali è stato rispolverato l’intero repertorio di baggianate che in quegli anni imperversavano. A onor del vero, le femministe non ci hanno fatto una gran bella figura nelle loro ultime performance, come la manifestazione nazionale tenuta a Napoli del febbraio scorso, dopo lo scandalo dell’aborto cosiddetto “terapeutico” eseguito al Policlinico: erano decisamente poche e decisamente retrò, anche per motivi anagrafici, visto che l’età media oscillava intorno ai 60 anni.

In ogni caso, complici i media, l’occasione per un ripasso dei vecchi ritornelli non è andata sprecata, a partire da “la 194 non si tocca”, vero e proprio mantra ripetuto incessantemente ogni volta che si parla di aborto, a finire alla “libertà di scelta”, passando per la fatidica “autodeterminazione delle donne”.

Al giorno d’oggi questi ritornelli hanno un potenziale evocativo meno significativo, perché i concetti che sottintendono sono (ahinoi!) penetrati, in larga parte, nella cultura e nei comportamenti sociali. Ma, negli anni ’70, furono alla base di un vistoso movimento, figlio diretto del Sessantotto e importato dall’estero attraverso il Movimento di Liberazione della Donna, che sembrava inserirsi nella generale battaglia politica ma invece ne combatteva una ben più devastante sul terreno culturale.

Seguendo la lezione gramsciana, i rivoluzionari nostrani avevano rinunciato alla conquista armata del potere, anche perché erano pienamente inseriti all’interno delle istituzioni e ne gestivano direttamente larghe fette. Attraverso la strategia dell’egemonia culturale erano penetrati e in parte avevano conquistato i gangli vitali della società: la scuola, le università, la magistratura, la stampa, la Rai, i sindacati, l’arte, il cinema, una parte del clero perfino. Alla fine degli anni Sessanta pensarono che i tempi fossero maturi per “il balzo in avanti”, l’ultima offensiva sociale per la conquista definitiva e ufficiale del potere statale. Si trattava di scardinare i pilastri dell’identità popolare, che rimanevano saldi perché trasmessi di padre in figlio, di madre in figlia, sfuggendo così l’inquinamento delle istituzioni.

Al Movimento Studentesco fu affidato il compito di agire sul sociale, mettendo in crisi, e abbattendo fin dove possibile, i concetti di autorità, gerarchia, responsabilità, regola, limite, sostituiti poi dalla “coscienza collettiva”, dalla “fantasia al potere”, dal “vietato vietare” ed da quegli elementi di “lotta sociale” che divennero le incubatrici del terrorismo. Il femminismo, invece, fu il grimaldello usato dalla rivoluzione strisciante per scardinare la famiglia, cellula fondamentale della società, come ancora si diceva allora. Il metodo fu, come sempre, quello della dialettizzazione dei rapporti: mogli vs. mariti; figli vs. genitori; madri vs. figli; giovani vs. vecchi (si chiamavano ancora così, allora).

Va detto che se la strategia ebbe successo fu anche per responsabilità dell’istituto familiare stesso, gradualmente degradato ad una serie di ipocrite convenzioni borghesi che poco avevano a che fare con la tradizione culturale e sociale cristiana e con il diritto naturale. Ciò nonostante, la famiglia ancora resisteva come tassello basilare della società e svolgeva coerentemente la propria funzione, conservando la continuità ed educando le nuove generazioni, sotto la tutela di leggi che ne riconoscevano la stabilità e il ruolo.

Il femminismo si mosse contro tutto ciò, con i festosi girotondi, con la moda delle gonnellone a fiori e con la logica della “liberazione della donna dall’oppressione della società maschilista”, arrogandosi il diritto di parlare in nome di tutte le donne, autonominandosi rappresentante dell’intera categoria femminile.

Le sue parole d’ordine furono “emancipazione” ed “autodeterminazione”: la prima era l’obiettivo dichiarato, la seconda lo strumento per conseguirlo. L’assunto era che “le donne” dovessero “realizzarsi”, emancipandosi da una serie di secolari “condizionamenti socio-culturali” che le costringevano in uno stato di sottomissione agli uomini: i livelli di istruzione inferiori, le prospettive professionali e retributive penalizzanti, una generica subalternità sociale, il matrimonio, il lavoro domestico, la maternità, la cura dei figli.

Il grande inganno fu mescolare fattori sociali ad elementi specifici della natura femminile, finendo per convincere un paio di generazioni di donne che la maternità, ad esempio, fosse una condanna imposta loro dalla società maschilista e che per realizzarsi pienamente fosse necessario rifiutarla, rinviarla, controllarla artificialmente e, soprattutto, separarla dalla sessualità che invece andava vissuta liberamente, scrollandosi di dosso al più presto le catene della morale familiare e cattolica.

Il controllo passava attraverso il “diritto di scelta” cioè la legalizzazione dell’aborto che, da reato, divenne “libero, garantito e gratuito”, stabilendo con una legge aberrante che la volontà della madre (e unicamente la sua, il padre non ha voce in capitolo!) abbia assoluta priorità sulla vita del bambino, senza praticamente alcun limite.

Il movimento femminista ottenne risultati rapidi sul piano legislativo, producendo una profonda trasformazione i cui esiti negativi oggi sono sotto gli occhi di tutti: legge sul divorzio (1970); nuovo diritto di famiglia (1975); legge sull’aborto (1978), solo per citare le principali. Il nuovo assetto normativo servì a consolidare le “conquiste delle donne” sul piano culturale, assicurandone la stabilità anche quando, nel corso degli anni ’80, il femminismo perse forza disperdendosi in rivoli estremistici e “antagonisti”, in riflussi ecologisti, nelle nebbie del new age e in derive esoteriche.

A quel punto, però, le mine erano già state piazzate nel campo sociale: le generazioni successive sono state allevate alla luce della concezione di vita e di persona che è scaturita dall’assunzione da parte delle donne, spesso inconsapevolmente, di modelli comportamentali, di pensiero e di competizione tipicamente maschili.

Per contro, la figura maschile, che non è stata ridefinita da un movimento ideologico uguale e contrario al femminismo, è rimasta incerta di fronte ai mutamenti sociali e familiari, finendo per arrendersi inerte alle pretese delle donne, con la rinuncia a qualsiasi ruolo propositivo nella coppia e nella società, oppure ha acuito la proverbiale renitenza alle responsabilità, approfittando del nuovo potere femminile.

Il conseguente smottamento della famiglia ha condizionato pesantemente lo sviluppo educativo, psicologico e sociale dei più giovani, sempre più insicuri, instabili, fragili e impreparati ad affrontare le prove della vita.

Il movimento femminista ha avuto una durata limitata e una visibilità apparentemente folkloristica; in realtà ha conseguito risultati culturali ed identitari di grandissima portata, scuotendo le fondamenta stesse dell’organismo sociale. Le conseguenze sono in sviluppo e, paradossalmente, il conto più salato lo pagano proprio le donne: separazioni e divorzi sono in aumento del 50%; 2 milioni sono le famiglie formate da un solo genitore con figli e, nell’87% dei casi, si tratta della madre; il 23% dei nuclei familiari è formato da persone sole, per lo più anziane; il 20% dei bambini nasce al di fuori del matrimonio; il primo figlio arriva quando la madre ha superato i trent’anni; 5 milioni di bambini sono stati abortiti dal 1978 e ogni anno si praticano 130.000 interruzioni legali di gravidanza, alle quali se ne aggiungono almeno 20.000 clandestine e una buona fetta delle 350.000 confezioni di “pillola del giorno dopo” (no, non è un anticoncezionale!) vendute ogni anno in farmacia; il suicidio è la quarta causa di morte violenta negli adolescenti e tocca punte del 16%; il 6% delle donne ha subito violenza (fonte ISTAT).

Marina Carrese

L’altra voce – marzo 2008