Antonella Grippo

Uno Dio e uno Re

Il brigantaggio come guerra nazionale e religiosa

prima edizione 2008

pagine 144

€ 10,00 – sconto Soci 30%

 

 

 

 

“Il brigantaggio è sempre stato ed è ancora una storia da espellere, da cancellare. Unita l’Italia, sono rimaste aperte delle ferite lente a rimarginarsi. Un sottofondo di soprusi, violenza e illegalità diffusa difficile da arginare e destinato a tornare costantemente a galla. Un sottosuolo carsico di illiceità che permane da oltre 140 anni e infetta un paese, nato male, cresciuto peggio”.

Nel 2000, l’Editoriale Il Giglio pubblicò Brigantaggio legittima difesa del Sud, la raccolta, curata dal prof. Giovanni Turco, degli articoli della Civiltà Cattolica su brigantaggio, scritti dai Padri Gesuiti tra il 1861 e il 1870, che facevano stato della corretta intrerpretazione del fenomeno, sviluppata nell’imminenza dei fatti, come della legittima difesa dei popoli delle Due Sicilie di fronte all’attacco portato dai garibaldini prima e dai piemontesi dopo alla propria esistenza ed identità.
La nuova pubblicazione del Giglio riprende la tematica, con stile snello e vivace, per dimostrare, con nuovi ed ulteriori documenti, la verità dell’assunto dei Padri Gesuiti: il brigantaggio fu davvero guerra di difesa da un aggressore che si presentava violento e animato da principi opposti alla storia e all’identità meridionali.
Dieci anni di rivolta contro uno Stato usurpatore e rapace, dieci anni di violenta e devastante repressione, sono stati l’atto di nascita dell’Italia unita. I segni lasciati sono molto più profondi di quanto si possa immaginare: solo attraverso questa lettura è possibile spiegare sentimenti ed atteggiamenti culturali che da sempre connotano i rapporti tra Nord e Sud, come la reciproca mancanza di fiducia, la “disaffezione alle Istituzioni e lo scarso senso civico” che si imputano ai Meridionali, la malcelata convinzione che il progresso socio-economico delle regioni settentrionali sia fondato su una pretesa superiorità morale.
Solo attraverso questa lettura è possibile spiegare anche, e soprattutto, la nascita e il permanere di classi dirigenti ipocrite, disoneste, prone ai poteri forti, corrotte e corruttrici, disposte ad ogni sorta di collusioni. Solo così, si spiegano 148 anni di politica nazionale agita con l’unico obiettivo del bene privato e il baratro economico tra Nord e Sud scavato con le braccia e il sudore dei Meridionali.
Fino a quando non sarà tutto chiarito su quel primo atto di nascita dell’Italia unita, tutto quel che è seguito continuerà a non essere comprensibile e parlare di futuro, qualunque esso sia, non avrà senso.

Il contesto storico

Prima ancora che il Regno scomparisse ufficialmente, quando a Gaeta ancora il Re Francesco di Borbone combatteva e resisteva eroicamente con i suoi uomini, destando l’ammirazione di tutte le Corti d’Europa, il popolo delle Due Sicilie stava organizzando la propria resistenza contro l’invasore, collaborando con i soldati napoletani asserragliati nei forti. All’indomani stesso della sconfitta, diversi paesi, in diverse parti del Regno, si sollevarono, si armarono e diedero vita alla grande epopea dei briganti. Se la storiografia non fosse stata partigiana e ideologica, questi eroi non sarebbero stati chiamati “briganti” ma patrioti e oggi le strade dei paesi lucani, calabresi, avellinesi, cilentani, porterebbero i loro nomi. Le bande di briganti furono numerosissime e molte contavano centinaia di uomini che lasciavano le famiglie e le terre per nascondersi nei boschi e combattere in nome di Dio e del Re.
Tra i primi briganti ci furono i soldati che non rinnegarono il giuramento fatto e non vollero passare nell’esercito italiano. Accanto a loro, i legittimisti europei, giovani e nobili ufficiali stranieri come l’alsaziano Emile de Christen, il vandeano Henri de Cathelineau, il prussiano Teodoro Klitsche de La Grange, l’austriaco Edwin di Kalckreuth, il belga Alfred Trazégnies de Namour, il catalano Rafael Tristany, il generale carlista José Borjès. Ai loro ordini masse di contadini, uomini e donne, che impararono a combattere, a resistere, a sopportare le violenta repressione operata da 120.000 soldati piemontesi ai quali il governo italiano aveva dato mano libera per distruggere ed annientare. Alla fine, la violenza ebbe ragione del valore: le deportazioni delle famiglie dei briganti, le fucilazioni sommarie senza processo, la miseria prodotta dalle leggi speciali che proibivano persino di portare con sè del pane per andare a lavorare nei campi, l’istigazione all’accusa e alla falsa delazione, isolarono i briganti dal resto del popolo meridionale, facendoli divenire quei lupi selvatici che la propaganda ideologica aveva sempre dipinto. Recise le radici ideali che lo avevano alimentato fino ad allora, il brigantaggio chiuse rapidamente la propria parabola, senza più la forza di resistere e combattere perché gli erano stati strappati l’anima e il cuore.

L’autore

Antonella Grippo è lucana; vive e lavora a Roma dove insegna Letteratura italiana e latina al Liceo.
Appassionata ricercatrice della storia della sua terra, ha collaborato a varie iniziative sul brigantaggio e ha preso parte più volte a manifestazioni e convegni del Giglio.
Ha pubblicato: L’avanguardia esoterica (Literalia 1997); Le immagini della memoria 1789-1809 (Controcorrente 2000); Omaggio a Tommaso Pedio (con G. Perri, Literalia 2002); I silenzi degli innocenti (con G. Fasanella, Bur 2006), 1861. La storia del risorgimento che non c’è sui libri di storia (con G. Fasanella, Sperling & Kupfer 2010).

Il brano scelto

VIVA ‘U RE NUOSTO!

Al grido di Viva ‘u re nuosto il popolo delle Due Sicilie, le bande di cafoni e zappaterra spesso guidate da soldati dispersi e da ufficiali dell’esercito borbonico ormai in scioglimento che non hanno voluto tradire, risponde alla chiamata a raccolta di sacerdoti e vescovi mobilitatisi per la difesa del trono e dell’altare.
«Il 15 luglio, a San Martino Valle Caudina, nel Sannio, la popolazione assale le abitazioni dei possidenti liberali al grido di Viva ‘u re nuosto, morte a’ liberali, a’ garibaldini!; il 21 vengono assalite le guardie nazionali a San Giorgio la Montagna e a Salza Irpina viene dato alle fiamme un fantoccio raffigurante Garibaldi; il 23 luglio a Venafro, mentre si festeggia con una sfilata l’entrata in servizio della nuova milizia, un migliaio di contadini irrompe nell’abitato al grido di Viva il re e abbasso la Costituzione! Simili manifestazioni popolari si verificano anche ad Atina, Casalvieri, Isola Liri e Castelluccio, nel Sorano, a Lacco Ameno, nell’isola di Ischia, a Casavatore, presso Napoli, e a Sant’Agata dei Goti, Morcone e Santa Croce nel Sannio». In Basilicata, insorgono Melfi, Venosa, Atella. Il 19 agosto 1860 un reparto delle forze insurrezionali lucane tronca a Melfi una manifestazione legittimista organizzata dal vescovo, Ignazio Maria Sellitti che è in contatto con il Comitato Borbonico di Roma e ancora «nutre la sua speranza del ritorno dei Borboni e ne parla con i suoi intimi come di un fatto che debba avverarsi immancabilmente.»
Le forze legittimiste lucane si organizzano in due nuclei: il primo a Melfi, vicino a Luigi Aquilecchia; il secondo a Rionero, vicino alla famiglia Fortunato.
Un successivo nucleo si riunisce ad Atella, nel convento di Santa Maria degli Angeli, da dove partono direttive non solo per i paesi lucani ma anche per quelli dell’Irpinia e della Puglia. E poi ancora ad Avigliano, intorno all’arciprete Francesco Claps e alla famiglia Corbo, a Ripacandida, a Rapolla, a Pescopagano, a Tricarico intorno a Raffaele Tortomani, ad Aliano ad opera del medico Antonio Ciarletta e dell’avvocato Domenico Molfese. Lagonegro subisce invece una feroce repressione per i moti antiliberali dell’ottobre ’60 durante i quali il vicegovernatore Pietro Lacava ordina di sparare ad altezza d’uomo. In Irpinia a settembre, centinaia di contadini si sollevano ad Ariano provocando trentuno caduti nelle file liberali. A Roccaromana il 19 settembre ‘60 e a Caiazzo il 21, i contadini si affiancano spontaneamente alle truppe borboniche per spingere oltre il Volturno i reparti del Csudafy e del Cattabeni. Su La Gazzetta di Gaeta questi coraggiosi contadini vengono dipinti come armati di «ronche, scuri, tridenti ed altro» e soprattutto «fedeli al Nostro Augusto Sovrano».
La repressione, le esecuzioni sommarie, gli arresti di massa inaspriscono un clima di legittima resistenza e rendono gli insorgenti migliaia: i soldati sbandati dell’ex Armata Reale, i coscritti che non intendono servire un altro Re, e poi contadini, braccianti e basso popolo che chiedono il riconoscimento dei diritti sulle terre demaniali.
«Fucilo tutti i paesani armati che piglio», dichiara – già nell’ottobre del ’60 – Cialdini che detiene nelle sue mani tanto il potere civile, con la carica di luogotenente, sia quello militare con il comando del VI Corpo d’Armata. Al suo arrivo a Napoli dispone di 14 reggimenti di fanteria, 8 battaglioni di bersaglieri e 2 reggimenti di cavalleria: per un totale di 22mila uomini. Con una crescita esponenziale diventeranno, nel febbraio ’64, poco meno di 117mila! «Ma se l’azione fu rea – sostiene Giacinto de’ Sivo – la reazione è santa. Che vale che i tristi la dicano brigantesca?[…] Se siamo briganti, quel governo che sforza tutto un popolo a briganteggiare è perverso».

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