Katyn

regia: Andrzej Wajda

sceneggiatura: Andrzej Wajda, Andrzej Mularczyk

produzione:  Akson Studio, Istituto Polacco di Roma, Consolato Generale della Repubblica di Polonia in Milano, Ambasciata della Repubblica di Polonia in Italia

Polonia,  2007  (118 min)

Acquista ora il dvd: € 15,00

 

 

Andrzej Waida narra la storia vera di 22.000 ufficiali dell’esercito polacco, sterminati con un colpo alla nuca e seppelliti in fosse comuni nella foresta di Katyn dai soldati sovietici dell’Armata Rossa che avevano invaso la Polonia, durante il secondo conflitto mondiale (1939-45). La prima notizia sulle fosse fu data, nella primavera del 1943, dai soldati nazisti, che documentarono la scoperta con dei filmati e stabilirono dai documenti ancora leggibili ritrovati sui corpi che si trattava dei prigionieri del campo di Kozelsk. 

A guerra finita, però, la propaganda sovietica, utilizzando le stesse immagini, riuscì ad imporre una versione dei fatti che accusava i tedeschi dell’eccidio e, per avvalorarla, addirittura furono processati e condannati a morte dei prigionieri di guerra come responsabili della strage. Questa tesi, sostenuta anche dal regime filosovietico che aveva preso il potere in Polonia, ebbe il tacito avallo delle potenze internazionali e la verità sui fatti di Katyn è stata tenuta nascosta, dentro e fuori del paese, con la complicità delle centrali filocomuniste occidentali, fino al 1990, quando per la prima volta i russi resero pubblici i documenti in loro possesso. Solo dopo la caduta del muro di Berlino è stato possibile avviare ricerche sistematiche che hanno portato alla scoperta di altre fosse a Kharkov e Mednoe, dove erano sepolte le vittime dei campi di Staroblesk e Ostashkov. 

Tra le migliaia di ufficiali polacchi uccisi, vi erano 7000 soldati della riserva che nella vita civile erano laureati, professionisti e dirigenti, cioè costituivano quella élite intellettuale e sociale che il regime comunista sovietico considerava “nemica di classe”. La loro morte, alla quale va aggiunta quella di un numero ancora non accertato di sacerdoti, decapitò di fatto la società polacca, azzerando così le concrete possibilità di esprimere capi che avrebbero potuto guidarla nell’opporsi all’instaurazione di un regime rivoluzionario. Fu così che la Polonia cadde sotto uno dei peggiori regimi della “cortina di ferro” e riuscì a liberarsi soltanto cinquant’anni dopo.

Il film, prodotto in Polonia nel 2007, ha avuto in Occidente una distribuzione irta di difficoltà, nonostante la nomination all’Oscar. In Italia, in particolare, è stato palesemente boicottato: rifiutato alla Mostra del Cinema di Venezia, è uscito soltanto in poche decine di sale in tutta la penisola.

L’articolo che segue, a firma di Vincenzo Sansonetti con la collaborazione di Grazia Lissi, è stato pubblicato sul numero di marzo 2009 della rivista Il Timone e sintetizza ottimamente i fatti storici e l’opera di disinformazione operata. 

 

La verità nascosta

«Non possiamo dimenticare le vittime del terrore nazista e poi di quello staliniano. Ci inginocchiamo presso le loro tombe sconosciute, consapevoli che essi hanno pagato il prezzo speciale della nostra libertà. Hanno dato – si può dire – la forma de­finitiva a quella libertà. Ci inginocchiamo so­prattutto presso le tombe di Katyn. La verità di Katyn è sempre presente nella nostra co­scienza e non può essere cancellata dalla me­moria dell’Europa». Con queste parole il com­pianto Giovanni Paolo II si rivolgeva ai membri della comunità polacca di Roma e del Lazio, nel discorso in occasione della presentazione degli auguri natalizi, il 24 dicembre 1993.

 La verità nascosta per decenni

Solo tre anni prima era stata ufficialmente e definitivamente smentita la versione imposta alla Polonia e al mondo intero sul massacro nella foresta di Katyn del 1940. Nell’eccidio erano stati uccisi dai sovietici con un colpo di pistola alla nuca, e seppelliti in fosse comuni, 22 mila ufficiali polacchi, compresi 7 mila del­la riserva (insegnanti, medici, ingegneri, arti­sti, docenti universitari, scienziati, magistrati, professionisti, in pratica tutta la futura classe dirigente della Polonia). Quando, per le alter­ne vicende della guerra, nel 1943 le truppe di Hitler avevano scoperto e fotografato le fosse nella foresta di Katyn, vicino a Smolensk, in Russia, i sovietici avevano negato ogni coin­volgimento e attribuito all’esercito tedesco il massacro. Lo stesso primo ministro britanni­co Churchill, e con lui il presidente degli Stati Uniti Roosevelt, per timore che la verità sulla strage potesse spaccare l’alleanza con l’Unio­ne Sovietica, decisero di non indagare, nono­stante le pressioni del governo polacco in esi­lio a Londra. Solo nel 1990 Gorbaciov ammise finalmente le colpe del suo Paese e dei comu­nisti, rendendo pubblici i documenti che attri­buivano la responsabilità dell’eccidio a Stalin e a Beria, il capo della Nkvd, la polizia segre­ta di Mosca. Oggi quella drammatica storia è diventata un film, Katyn, girato nel 2007 e da poco arrivato sugli schermi italiani, diretto da quel grande maestro del cinema europeo che è l’83enne regista Andrzej Waida.

 Il volto della Madonna sul cuore

«Nel mio film, frutto di una lunga e sofferta ge­stazione, affronto l’argomento da un duplice punto di vista», ha spiegato il regista polacco. «Katyn come crimine e come menzogna, dal momento che i sovietici per più di mezzo se­colo hanno sostenuto che la strage era stata commessa dai tedeschi. Vittima di quel mas­sacro fu anche mio padre Jakub Wajda, ca­pitano del 72° reggimento di fanteria, ucciso nel 1940 dalla milizia stalinista a Chankow e seppellito in un bosco lì vicino». Andrzej Wa­jda aveva 13 anni quando vide per l’ultima vol­ta suo papà. Della mattina in cui lo portarono via ricorda l’angoscia dell’addio e il gesto im­provviso della madre: «Gli diede una medaglia con il volto dì Maria, e lui se la mise sul cuore. In segno di protezione». Ma il destino dei mili­tari polacchi era segnato, l’Armata Rossa ave­va già deciso la loro fine. Wajda ha dedicato il film su Katyn a suo padre «che non è mai tor­nato», a sua madre Aniela che «lo ha atteso fi­no al 1950, quando è morta, senza conosce­re la verità, e a tutti coloro che hanno vissuto nel dolore». Precisa il regista, grande amico di Walesa: «Dal 1945 al 1989 chiunque avesse voluto scrivere un libro o girare un film sull’ec­cidio avrebbe dovuto mentire. A Katyn è sta­ta assassinata l’intellighenzia polacca. Le vitti­me erano militari prigionieri indifesi che il dirit­to internazionale vieta di uccidere; i civili sono stati condannati e uccisi sulla base di accuse infondate, nessuno di loro aveva commesso reati contro I’Urss».

 La spartizione della Polonia

II film inizia con una scena epica, che reste­rà nella storia del cinema: la fuga di due folle che si incontrano su un ponte. Da una parte, da ovest, i polacchi che cercano di sottrarsi all’avanzata dei tedeschi; dall’altra, da est, i lo­ro connazionali che invece cercano di sfuggire all’Armata Rossa. È il 17 settembre 1939. A se­guito del Patto Molotov-Ribbentrop, il trattato di non aggressione stipulato fra Germania na­zista e Unione Sovietica (allora non ancora ne­mici), Hitler e Stalin avevano deciso di spartirsi il territorio polacco. Krystyna Brydowska, vice­presidente della Federazione Vittime di Katyn, figlia di un comandante di polizia ucciso, era sul ponte fra quelle due folle impazzite. È lei la bambina che appare nel film: «Non riuscivo a smettere di piangere, avevo paura. Mia madre mi diede delle zollette di zucchero per tranquil­lizzarmi». I soldati semplici catturati dai russi furono utilizzati per costruire strade, per il lavo­ro in miniera. Per gli ufficiali imprigionati, consi­derati «nemici di classe», molti dei quali passa­vano le giornate stringendo il rosario tra le ma­ni, vennero costruiti due campi: Kozielsk, pres­so Smolénsk, e Starobielsk. I poliziotti vennero internati nel campo di Ostashkov. I loro corpi, dopo l’esecuzione in massa, furono gettati nel­le fosse comuni di Charkov e Mednoe.

Wajda: «I giovani devono sapere»

«Ho deciso di scrivere la sceneggiatura del film basandomi sulle lettere dei prigionieri assassi­nati, ho letto i loro taccuini. Ho utilizzato il dia­rio di mia madre, scritto ogni giorno, nella spe­ranza che mio padre tornasse», spiega il regi­sta. «Le donne polacche hanno consacrato la vita all’attesa del ritorno dei loro mariti, padri, figli, fratelli. I giovani devono sapere come han­no vissuto le loro nonne e madri. Per questo nel film sono determinanti í personaggi femmi­nili. Ognuna di loro risponde in modo diverso al proprio dolore: Anna fino all’ultimo crederà nel ritorno del marito, Ròza si rifiuterà di accettare la versione sovietica, Agnieszka nel dopoguerra sfiderà la polizia segreta per onorare con una lapide la memoria del fratello ucciso a Katyn. Quando nel 1943 i tedeschi scopriro­no le fosse, i cadaveri non si erano ancora de­composti. Ogni militare aveva con sé i documenti, ancora leggibili. Sono stati spediti ai fa­miliari. Il film racconta fatti reali, gli attori hanno lavorato su testimonianze autentiche». Nel Museo di Katyn, allestito a Varsavia e inaugurato il 29 giugno 1993, sono raccolti gli oggetti dei militari uccisi: piccole tabacchiere scolpite nel legno, i bottoni delle divise, gli scacchi e i do­mino costruiti durante la prigionia. Centinaia le chiavi di casa che si erano portati in guerra come a rassicurarsi che sarebbero tornati. Un an­golo è dedicato agli oggetti di culto religioso. 

Di nuovo la cortina del silenzio

Nel massacro morirono, non è ancora stato precisato il numero esatto, sacerdoti cattolici e ortodossi, pastori luterani ed evangelici, rabbi­ni e l’imam che rappresentava la comunità tar­tara musulmana. Alla fine degli anni Ottanta, í familiari delle vittime avevano stabilito, in ac­cordo con il sacerdote Jozef Gawlina, di erige­re una lapide commemorativa nella chiesa di San Bartolomeo, a Varsavia. Nel gennaio 1989 padre Jozef venne assassinato dai servizi se­greti del morente regime comunista. Durante il suo penultimo viaggio in Polonia, nel 1999, papa Wojtyla pregherà davanti a quella lapide, ricordando tutti i ­sacerdoti polacchi uccisi per la fede e per la li­bertà. Dal 2004 la magistratura polacca non ha più accesso ai volumi contenenti le investiga­zioni russe sull’eccidio, iniziate con Gorbaciov durante gli anni della perestrojka. Su 183 vo­lumi, 116 sono coperti di nuovo da segreto di Stato. Così non si sa ancora il nome né il luo­go di sepoltura di 3.500 polacchi uccisi dai so­vietici nel 1940.

Spettatori pietrificati

Il film ha avuto la nomination all’Oscar 2008 co­me miglior film straniero. «Alla prima di Berli­no», ricorda Wajda, «gli invitati sono rimasti se­duti, in silenzio, come pietrificati. A Varsavia la gente uscendo ha iniziato a pregare per le vit­time [in Polonia il film è stato visto da più di tre milioni di spettatori, ndr]. Addirittura, alla prima di Mosca, qualcuno ha chiesto un minuto di si­lenzio alla memoria dei militari uccisi a Katyn e il pubblico si è alzato in piedi. In quel momen­to ho capito i motivi per cui avevo realizzato il film: credo che il cinema sia ancora capace di creare una coscienza politica e culturale». Pec­cato che in Italia la pellicola, uscita a febbraio, sia stata distribuita in un numero esiguo di co­pie. Questo film-verità andrebbe proiettato in tutte le scuole.