(Lettera Napoletana) Ha fatto discutere l’articolo di Lettera Napoletana di gennaio sugli pseudo-meridionalisti che si preparano a candidarsi alle elezioni regionali di maggio in Campania (cfr. “Sud: le liste-patacca dei falsi meridionalisti”, LN 84/15). È un effetto positivo. L’obbiettivo di LN, infatti, è quello di informare e contro-informare per diffondere consapevolezza ed impedire in questo modo nuove operazioni truffaldine come quelle perpetrate per decenni ai danni dei meridionali in nome dello “sviluppo del Mezzogiorno”.

Per riscattarsi dalla situazione di subalternità culturale e di sottosviluppo economico nel quale è precipitato dopo l’unificazione-annessione, il Sud ha bisogno di verità sulla propria storia ed ha bisogno di riappropriarsi della propria identità culturale. Questa è la premessa indispensabile per fare nascere una nuova classe dirigente politica, radicata nella storia e nei valori delle Due Sicilie.

Sono state le ideologie, il liberalismo – che ha dato vita al cosiddetto Risorgimento – ed il marxismo – che riduce ad un capitolo della “lotta di classe” mondiale la storia dell’attuale Sud d’Italia – a causare la subalternità culturale ed economica. Al liberalismo (includendo in esso il cattolicesimo liberale della Democrazia Cristiana) ed al marxismo infatti si rifanno le classi dirigenti politiche che il Sud ha avuto dal 1861 in poi. I loro risultati sono quelli che ogni meridionale può constatare. Oggi i “meridionalisti” eredi del liberalismo risorgimentale, riuniti nel carrozzone pubblico dello Svimez, non trovano di meglio che riproporre, in accordo con il governo Renzi, un ministero per il Sud. È la linea di quell’ “intervento straordinario nel Mezzogiorno” che ha alimentato per decenni le grandi imprese del Nord, ha nutrito un folto sottobosco politico, ed è servito a finanziare l’organizzazione del consenso da parte del ceto politico meridionale – dai Gava ai Bassolino – grazie alla intermediazione delle risorse pubbliche.

Un gruppetto di marxisti non pentiti, ideologi della Terza e della Quarta Internazionale e neo-marxisti, dal teorico trotzkysta Aldo Bronzo all’ex leader dei “No Global” Francesco Caruso, di apparatchik comunisti, sindacalisti “di base”, “attivisti politici”, agitatori professionali, con qualche giornalista e qualche ex assessore di De Magistris in cerca di nuovi incarichi, tenta ora di proporsi come leadership della ormai ampia area di opinione pubblica che in questi anni è divenuta attenta alla revisione storiografica in atto sulle Due Sicilie ed alla ripresa di orgoglio identitario ed annuncia la presentazione di liste “civiche” e “meridionaliste” alle elezioni regionali della Campania. È l’imbroglio che LN ha segnalato nel numero di gennaio.

Non si tratta dunque di rilasciare “patenti di meridionalismo”, ma di analizzare le idee e la provenienza politica di certi “meridionalisti”.

I “meridionalisti” dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, riuniti nello Svimez, sono gli eredi di Manlio Rossi Doria (1905-1988), un ex comunista passato al Partito d’Azione, quello di Mazzini e di Garibaldi, di Pasquale Saraceno (1903-1991), un democristiano formatosi all’Università Bocconi di Milano, di Guido Dorso (1892-1947), un liberale iscritto al Partito d’Azione, poi candidato dell’Alleanza repubblicana.
Come i loro predecessori Giustino Fortunato (1848-1932) e Pasquale Villari (1827-1917), a parte qualche rimpianto che assomiglia alle lacrime del coccodrillo (“l’unità d’Italia è stata la nostra rovina economica”, scriveva Fortunato nel 1899. Ma aggiungeva che “è stata e sarà la nostra redenzione morale”) non mettono in discussione l’unificazione-conquista compiuta dal liberalismo risorgimentale e pensano che il divario economico, nato a fine ‘800 con la creazione del triangolo industriale Milano-Torino-Genova, debba essere colmato con l’intervento dell’industria di Stato e della grande industria del Nord. In questo schema, il Sud è destinato a restare in posizione subalterna ed economicamente dipendente, come ha riconosciuto anche uno storico unitario come Paolo Macry. “Il meridionalismo – ha scritto Macry – ha molto da farsi perdonare avendo suggerito politiche incapaci di determinare crescita autosostenuta” (“Corriere del Mezzogiorno” 12.4.2014). Lo stesso Macry ha descritto bene lo scambio tra organizzazione del consenso politico per i partiti nazionali ed intermediazione delle risorse pubbliche compiuto dal ceto politico meridionale (cfr. “Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo insieme i pezzi”, Il Mulino, Bologna 2012).

Aggrappati ai finanziamenti pubblici, insediati saldamente in carrozzoni statali come lo Svimez ed il Formez, legati alle banche ed alla grande industria del Nord, vera beneficiaria dell’Intervento straordinario nel Mezzogiorno, e della ricostruzione post-terremoto dell’Irpina del 1980, (cfr. lo studio dell’imprenditore Gennaro Zona, Come ti finanzio il Nord, Esi, Napoli 1997), questi “meridionalisti” non hanno detto una parola sulla svendita del Banco di Napoli all’Ina-Bnl per 60 miliardi di vecchie lire, voluta nel 1997 da Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro di Prodi, con la complicità dell’allora sindaco di Napoli Antonio Bassolino e della quasi totalità dei politici meridionali. E non hanno detto una parola sulla fine della Banca del Mezzogiorno, affondata dall’ex amministratore delegato di Intesa-Sanpaolo Corrado Passera, ministro di Monti (cfr. “Sud: La Banca del Mezzogiorno ? Finanzia le imprese del Nord”, LN 64/2013).

Lo Svimez è presieduto da Adriano Giannola, già presidente della Fondazione Banco di Napoli (dopo la svendita). La Corte dei Conti ha trasmesso qualche giorno fa al Parlamento una relazione sulla gestione 2013 dell’ente, chiedendo “correttivi”. Dalla relazione emergono spese per 2,4 milioni di euro, contributi statali per 1 milione e mezzo e perdite per 193 mila euro (“l’Espresso”, 19.2.2015). Lo Svimez – osserva la magistratura contabile – spende l’intero contributo statale per pagare il personale, ma eroga “collaborazioni” per 345mila euro. Ex componente (2002-2005) del famigerato CTS (“Comitato tecnico-scientifico”) della Regione Campania guidata da Antonio Bassolino, i cui membri venivano pagati senza neanche riunirsi, Giannola è stato nominato nel 2011 dal sindaco di sinistra Luigi De Magistris presidente del Teatro Mercadante di Napoli. Sfiduciato da De Magistris, si è schierato, all’interno del cda del Teatro (ora promosso a Teatro nazionale, con un milione di contributi statali in arrivo) con i consiglieri nominati dal presidente della Regione Campania Stefano Caldoro, di centrodestra, mantenendo così la poltrona.

Quanto ai “meridionalisti” marxisti, non hanno nessun rimpianto per la fine del Regno delle Due Sicilie, una monarchia considerata, secondo le loro categorie, arretrata. Antonio Gramsci (1891-1937) descrive prima dell’unificazione un Nord dell’Italia con “una borghesia audace e piena d’iniziative”, dove “esisteva una organizzazione economica simile a quella degli altri Stati d’Europa, propizia allo svolgersi ulteriore del capitalismo e dell’industria” ed un Sud dove “le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l’agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale: non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua speciale conformazione geologica, possedeva” (Antonio Gramsci, “La questione meridionale”, Liberliber, Roma 2008, pag. 4).
I Borbone – per il teorico comunista – non avevano “carattere nazionale”, ma “folkloristico”, cioè “provinciale”, “sia nel senso di ‘particolaristico’ ” – precisa – “sia nel senso di anacronistico, sia nel senso proprio a una classe priva di caratteri universali (almeno europei)” (“Quaderni dal carcere”, q.14 (I) § 7).
I Borbone, cioè, resistevano, in nome dei valori tradizionali e del cattolicesimo alla modernizzazione che il marxismo ritiene indispensabile per l’avanzata verso il socialismo.
Gramsci dedica un passaggio molto citato alla feroce repressione compiuta dallo Stato unitario contro il cosiddetto brigantaggio, ma è solo per alimentare la dialettica contadini sfruttati del Sud-capitalisti del Nord. La sua prospettiva tattica è un’alleanza tra contadini del Sud ed operai del Nord per instaurare la “dittatura del proletariato”. “Il proletariato settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali (….) La rigenerazione economica e politica dei contadini non deve essere ricercata in una divisione delle terre incolte e mal coltivate ma nella solidarietà del proletariato industriale, che ha bisogno a propria volta della solidarietà dei contadini” (“La questione meridionale”, p.38).

Con gli stessi schemi ideologici deformanti i “meridionalisti” che si candidano alla Regione leggono la storia più recente del Sud. Il sottosviluppo meridionale, per loro, non è la conseguenza dell’unificazione, ma dell’assetto capitalistico del nuovo Stato. I nemici del Sud sono quelli “di classe”: Tremonti, Berlusconi, ora Salvini, e chiunque si opponga all’oppressione fiscale, all‘immigrazionismo selvaggio, all’assistenzialismo di Stato del “reddito minimo garantito”, all’ambientalismo anti-capitalista che nella “Terra dei Fuochi” sta provocando più danni dello sversamento dei rifiuti tossici, alla teoria del gender sulla base della quale verranno compilate – annunciano – le loro liste. Un armamentario ideologico che spazia dal marxismo-leninismo dei cosiddetti Centri sociali, dai quali proviene una buona parte dei sottoscrittori delle liste “meridionaliste”, a scampoli di teorie della Scuola di Francoforte. Dei Borbone e del Risorgimento a questo personale politico non interessa nulla, e nulla hanno capito. I briganti diventano per loro partigiani antifascisti, e sui loro siti Internet e sulle t-shirts disegnano la cartina dell’ex Regno delle Due Sicilie dipinta di rosso e sovrastata dalla stella della Terza Internazionale. Liberi di candidarsi dove vogliono, naturalmente. Ma le Due Sicilie ed il Sud da loro non hanno niente di buono da attendersi. (LN85/15).