Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare in un paese come il nostro dove si decreta di sostituire, nei programmi scolastici, lo studio della Storia (memoria documentata che permette la visione d’insieme di cause e conseguenze) con lo studio della cronaca tanto ravvicinata da non poter essere ancora raccontata nella sua interezza e tanto meno rielaborata, il bicentenario suddetto sarà celebrato e per questo si è già compiuto il passo più importante: sono stati stanziati due miliardi di fondi pubblici, opportunamente elargiti a persone fidate.Tra meno di due anni ricorrerà il bicentenario della proclamazione della Repubblica Partenopea, il fallito tentativo, attuato nel 1799, di esportare la Rivoluzione Francese nel Regno delle Due Sicilie.

 

A ben guardare, è strano che si intenda celebrare – e in gran pompa a quanto pare – un fatto storico che ha interessato un Regno cancellato dalla memoria nazionale, liquidato con poche righe nei libri di scuola e raramente citato se non come esempio di ridicolo, di indegno, di squallido. La spiegazione di tanto interesse sta forse nel fatto che la Repubblica Partenopea fu illuminista e giacobina, e un filo rosso la unisce agli odierni celebratori: la Rivoluzione, madre di tutti gli “intellettuali progressisti”.

 

Le vicende del 1799, infatti, altro non sono che l’epilogo di un lungo periodo di attacchi scatenati dall’esercito rivoluzionario francese contro l’intera Europa e dell’invasione della penisola italiana iniziata già alcuni anni prima.

La Rivoluzione Francese aveva manifestato sin da principio propositi espansionistici ma aveva potuto pienamente realizzarli soltanto con Napoleone che aveva travolto regni, ducati e quant’altro. Al grido di «libertà, eguaglianza, fratellanza» sul territorio italiano erano state create le Repubbliche Cisalpina e Cispadana, sul modello francese ed era stato imposto il tricolore. In nessuno dei paesi “liberati” dalle truppe francesi l’appoggio popolare aveva sostenuto i nuovi poteri repubblicani e lo testimoniano le Insorgenze controrivoluzionarie sviluppatesi ovunque, in Piemonte, nel bresciano, nel pavese e in tutta la Lombardia, in Veneto, nelle Marche, in Toscana. Si trattò, invece, sempre di tradimento da parte di pochi rappresentanti del ceto medio e delle Corti, che attraverso le Università e le Logge erano entrati in contatto con le idee illuministiche.

 

Lo stesso accadde anche nel Regno delle Due Sicilie dove, tra la borghesia, la nobiltà e all’interno della Corte, l’astratto riformismo illuminista era di casa. In qualche modo ne era stato contagiato lo stesso re Ferdinando IV, che si era fatto promotore di innovazioni sociali informate a principi razionalisti.

 

La colonia di San Leucio era uno di questi: su terreni bonificati era stato costruito un intero villaggio, vi era stato impiantato l’allevamento del baco da seta e si era avviata la lavorazione dei tessuti. La colonia era concepita in modo da essere autosufficiente e nell’atto di costituzione venivano sancite anche le norme che regolavano l’orario di lavoro, le ferie, l’assistenza in caso di malattia e gli organismi di rappresentanza; ad ogni famiglia di coloni era stato dato del terreno ed una casa in enfiteusi, affrancandole, così, dalla condizione di braccianti. San Leucio, col tempo, divenne un centro tessile conosciuto in tutta Europa, la cui tradizione si conserva ancora oggi.

 

Gli illuministi napoletani avevano celebrato il re Ferdinando come una grande speranza per il progresso del popolo e ancora si possono leggere le odi scritte da Eleonora Pimentel Fonseca in suo onore. Ma non si accontentarono delle riforme, vollero di più, vollero tutto, soprattutto vollero il potere e per ottenerlo non si fermarono neanche davanti al tradimento della Patria e del popolo stesso, del quale si erano autoproclamati interpreti.

 

Così, il 22 gennaio 1799, quando le truppe d’invasione francesi, guidate dal generale Championnet, furono alle porte di Napoli, invece di difendere il proprio Paese dallo straniero, si impadronirono delle fortezze della città, bloccandone in questo modo la possibilità di resistenza, proclamarono la Repubblica ed accolsero a braccia aperte i soldati napoleonici. Questo fu il comportamento dei vari Carlo Lauberg, Mario Pagano, Vincenzo Russo, del nobile Serra di Cassano, Caracciolo, della poetessa di corte Eleonora Pimentel Fonseca già citata.

 

Dopo due secoli ci si ostina a ricordare questi signori come patrioti, senza però chiarire di quale patria: non certo di quella napoletana, piuttosto forse di un’utopica patria rivoluzionaria, i cui confini erano segnati dai fucili francesi.

 

Per contro, viene ricordato come codardo il re Ferdinando IV, rifugiatosi a Palermo alla vigilia dell’invasione; ma quale sarebbe stata la sua sorte, se fosse caduto nelle mani di nemici che avevano già dimostrato di non fermarsi davanti al regicidio?

Il generale Jean Étienne Vachier

detto Championnet

 

E vengono ricordati come ottusi sanguinari i lazzari, cioè il popolo minuto di Napoli, che generosamente e spontaneamente insorse in difesa della città e che, al termine di tre giorni di violento combattimento vicolo per vicolo, martoriato dal fuoco francese di fronte e dai bombardamenti dei giacobini napoletani dall’alto di Castel Sant’ Elmo, contò migliaia di morti.

Il generale Championnet, infatti, meno fazioso dei napoletani illuminati, di ieri e di oggi, rese onore ai lazzari descrivendoli come “uomini meravigliosi, eroi, comandati da capi intrepidi”.

 

La resistenza contro i giacobini interessò tutto il Regno, fino ai più piccoli villaggi, benché ovunque fossero stati innalzati gli alberi della libertà per iniziativa di sostenitori locali, spesso rientrati al seguito delle truppe francesi.

 

Fatto sta che i simbolici alberi dovevano essere continuamente presidiati da sentinelle armate per poterli tenere in piedi e che dappertutto arresti e persecuzioni non si contavano.

 

Il malcontento e l’opposizione non impiegarono molto tempo per affermarsi anche tra coloro che erano stati spettatori indifferenti o favorevoli. Già dalla metà del febbraio 1799, a meno di un mese dalla instaurazione della Repubblica Partenopea, i giacobini si erano fatti conoscere come violenti oppressori, pronti ad ogni sorta di sopruso mascherato con chiacchiere altisonanti e dilapidatori di ricchezze pubbliche e private.

Del resto, non c’è da meravigliarsi che il malgoverno imperasse visto che i giacobini napoletani passarono i primi mesi a litigare per spartirsi cariche e potere, con il risultato di numerosi rimpasti di governo.

A mantenere l’ordine, intanto, ci pensavano alcune migliaia di soldati francesi stanziati su tutto il territorio del Regno. Nella sola cittadina di Salerno, piccolo borgo mercantile a sessanta chilometri dalla capitale, ce n’erano ben cinquemila con il compito di reprimere ogni tentativo di insurrezione. Ciò nonostante, continui episodi di reazione controrivoluzionaria si verificavano in tutte le province, sin dalla metà di febbraio, e un nulla bastava per alimentare la rivolta controrepubblicana.

Per esempio, nel villaggio di Cetara, sulla Costiera Amalfitana, i pescatori si opposero al sequestro di due imbarcazioni i cui proprietari non avevano nascosto la propria fedeltà al Re, e si scontrarono vittoriosamente con un drappello francese; la notizia si diffuse rapidamente e altri moti antigiacobini scoppiarono nei villaggi vicini, fino alla piana di Nocera e a sud, fino ad Eboli. La repressione fu violenta e Cetara, luogo di origine della rivolta, subì la vendetta francese, uscendone semidistrutta.

 

Come si può leggere nelle cronache del tempo e nelle relazioni dei vari Commissari Dipartimentali nominati dalla Repubblica, l’intero popolo delle Due Sicilie era pronto alla controrivoluzione sin dall’inizio e il Cardinale Ruffo, partito con pochi amici dalla Calabria alla metà di febbraio, non dovette certo faticare per trovare volontari per la sua Armata Reale e Cristiana.

 

I napoletani, fedeli al loro Re, non attendevano l’arrivo delle truppe realiste per ribellarsi, ma abbattevano gli alberi della libertà e al loro posto innalzavano croci ed organizzavano la difesa contro la reazione francese. Salerno, punto nodale per raggiungere le Calabrie e l’interno, verso l’avellinese, fu liberata dai controrivoluzionari il 25 aprile; lo stesso giorno partirono da Napoli e da Avellino due distaccamenti di 1500 soldati ciascuno, comandati dal generale Watrin, con l’obiettivo di riprendere la città e metterla a ferro e fuoco.

Dopo una dura battaglia, la resistenza dei realisti salernitani fu spezzata soltanto quando i soldati napoleonici dettero fuoco, distruggendolo, all’ospedale dei Fate Bene Fratelli adiacente alla porta di accesso. Il saccheggio della città durò un giorno e una notte interi: molte chiese furono profanate; il Municipio, la sede della medioevale Scuola Medica e molti palazzi privati furono devastati; il Duomo normanno fu utilizzato come stalla dalla cavalleria francese e i sarcofagi posti nell’atrio divennero abbeveratoi per i cavalli.

 

Il generale Watrin diede un sanguinoso esempio di fratellanza rivoluzionaria e, come ricorda il Colletta, «uccise tre migliaia di uomini, non perdonò a’ prigioni se non militari di ordinanza e serbò alcuni Borboniani sol per farli punire da’ tribunali con tremenda esemplarità». L’Arcivescovo della Diocesi, Salvatore Spinelli, fu arrestato con l’accusa di aver organizzato l’insurrezione e fu tradotto nelle carceri di Napoli.

 

La reazione antirepubblicana però non si spense, anzi si diffuse in tutto il Dipartimento del Sele, ravvivata anche dalla speranza dell’imminente arrivo delle forze realiste e del passaggio dell’Armata del Cardinale Ruffo.

 

Salerno fu liberata definitivamente il 10 maggio 1799 e un mese dopo furono abbattute le insegne repubblicane nell’ultimo paese della provincia, Sant’Angelo.

 

Il 13 giugno Il Cardinale Ruffo entrò vittorioso a Napoli e liberò definitivamente il Regno delle Due Sicilie dall’oppressione della Repubblica giacobina.

 

Tra meno di due anni, dunque, ricorrerà il bicentenario della Repubblica Partenopea del 1799.

I fatti da celebrare sono questi: un intero popolo si schierò in difesa del proprio Paese, del proprio Re, della propria Fede, contro un invasore straniero e contro i traditori interni che aiutarono il nemico; un intero popolo si sollevò per non sottomettersi ad un regime oppressivo che dietro altisonanti e false parole nascondeva il vuoto della violenza e della disumanizzazione. Le celebrazioni che saranno organizzate ci racconteranno questa storia?