L’articolo, apparso sul numero di novembre 2006 della rivista di apologetica Il Timone (www.iltimone.org), è una preziosa analisi della strategia in atto per giungere alla legalizzazione dell’eutanasia. Identica a quella utilizzata negli anni Settanta ed Ottanta per legalizzare divorzio e aborto, dimostra come il fronte anti-vita, giudato dai soliti Radicali, sia compattamente organizzato, pianifichi le proprie mosse scientificamente, conosca ed utilizzi perfettamente le tecniche della disinformazione e della manipolazione dell’opinione pubblica. Questa elaborata macchina distruttiva è necessaria per dare l’impressione che, quella che in realtà è una sparuta minoranza, sia invece interprete – ed avanguardia – della volontà della maggioranza. Si tratta di un’abile illusione ottica che rischia, però, di riuscire nel suo intento, se i cattolici e tutte le persone di buon senso non restano vigili e reattivi. L’autore, Mario Palmaro, docente di Filosofia del Diritto dell’Università di Padova e presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, è stato una delle voci di punta della battaglia in difesa della vita, fino alla prematura scomparsa, nel 2014.

 


  

Le dieci tappe verso la “dolce morte”

di Mario Palmaro

Un vero e proprio caso da manuale della cultura anti-vita.

La vicenda di Pier­giorgio Welby – il malato di sclerosi laterale amiotrofica che ha chiesto al Pre­sidente della Repubblica di legalizzare l’eutanasia – è un piccolo capolavoro prodotto dalla ben oliata macchina da guerra radicale. Ci fornisce un esem­pio perfetto delle “regole di ingaggio” che caratterizzano l’infaticabile azione dei profe­ti del nulla.

In questa storia ritroviamo gli ingredienti fondamentali che permettono a un manipolo be­ne organizzato – costituito da pochissimi politici e intellettuali – di progettare, promuovere e portare a compimento la trasformazione del senso comune di un’intera nazione rispetto a un grande tema collettivo come quello dell’eutanasia. Sono strategie che abbiamo già visto usare con tragico successo nel caso del divorzio e dell’aborto. Ora tocca al disegno diabolico che prevede la trasformazione della morte da fatto naturale a vicenda artificiale, programmata e pianificata dall’uomo che si “autodetermina”. Ecco come, in dieci mosse, la cultura radicale è scesa in campo per vincere la sua partita a favore dell’eutanasia.

1. Pietà verso il caso umano

II caso umano serve a sconvolgere l’opinione pubblica: presentare un volto concreto che si offre con crudezza alla commiserazione della gente. II caso umano deve spaventare l’uomo della strada, porlo dì fronte a una situazione che gli appaia insostenibile. Portare gli spettatori e i lettori a pensare: che orrore, se capitasse a me. Bisogna usare un corpo umano per disarmare l’opinione pubblica, ridurla al silenzio, metterla in condizione di in­feriorità psicologica.

2. Apparente assenza della componente ideologica

I registi di tutta l’operazione devono fare un passo indietro, si defilano in una zona d’om­bra del palcoscenico, pronti a uscire allo scoperto al momento opportuno. I radicali sono consapevoli di non essere simpatici a tutti. Sanno anche che l’uomo della strada prova un sentimento di istintiva diffidenza per i politici. Ecco allora che la “battaglia per i diritti i civili” diventa potente se è combattuta da una vittima, fornita di una patente di rispettabi­le normalità: la moglie maltrattata, la donna violentata, il malato di sclerosi. Persone che parlano non per interesse di partito, ma per far valere “un loro diritto”: quello a divorziare, ad abortire, ad essere uccisi.

Basterebbe un po’ di attenzione per accorgersi che le cose non stanno proprio così che ad esempio Welby è il co-presidente della Fondazione Coscioni. Quindi, un uomo che fa politica in una organizzazione collaterale al Partito Radicale. Ma quasi nessuno se ne accorge.

3. Inquinamento del fatto religioso

In un Paese che conserva ancora sentimenti confusi ma diffusi di affinità al cattolicesimo, l’esibizione del crocifisso appeso accanto al letto di Welby è un vero colpo da maestro. Non dunque un ostile anticlericale ateo professo, ma un più intrigante uomo attraversato da dubbi e interessi per “le religioni”. II messaggio allo spettato­re medio è: guarda, noi non ti chie­diamo di abiurare la tua fede; puoi essere cattolico e volere l’eutana­sia. È la tecnica dello “svuotamen­to” della fede, della sua riduzione a qualsiasi cosa, a insignificanza.

4. Clericalizzazione del problema

II massimo che il cattolico medio sappia esibire in queste discussioni è spesso uno slogan del tipo: “co­me credente sono contrario all’eu­tanasia”. Una dichiarazione che va a nozze con l’obiettivo del nichili­smo radicale: mostrare che in que­ste materie ognuno deve poter de­cidere in base alle proprie convin­zioni morali e religiose. Perfino il bravo cardinale ottuagenario che, intervistato dal tiggì, argomenta contro l’eutanasia ricordando il la­voro delle buone suorine che as­sistono gli ammalati nel vecchio ospedale della città diventa, nelle mani astute dei radicali, un argomento pro-eutanasia: “che i cattolici facciano pure i buoni samaritani; basta che non ci vietino l’eutanasia”. Sia­mo così giunti all’anticamera della legalizzazione.

5. Complicità dei mezzi di comunicazione di massa

La lettera di Welby a Giorgio Napolitano sarebbe anche po­tuta finire in taglio basso a pagina 30 del Corriere della Se­ra. È invece stata strillata sulle prime pagine di tutti i quo­tidiani, e ha tenuto banco nelle aperture dei principali tele­giornali. I Radicali hanno ottenuto la massima visibilità con il minimo sforzo. Del tutto probabile che abbiano prealler­tato i direttori delle principali testate, e verificato se e quan­do la notizia avrebbe potuto sfondare il complesso mecca­nismo del mercato della comunicazione.

6. Collateralismo del sistema politico e istituzionale

I radicali sapevano già con certezza che Napolitano avreb­be loro risposto, e che in qualche modo il Presidente- post comunista di gran classe – avrebbe fornito un appoggio all’obiettivo primario dei profeti della dolce morte: aprire un dibattito politico e parlamentare. Bisognava obbligare i partiti ad ammettere che l’eutanasia doveva entrare nel­l’agenda politica. E così è stato.

7. Consapevolezza della debolezza dell’avversario

I radicali sanno benissimo che il loro avversario è, su que­ste frontiere della vita e della morte, sempre più demotiva­to, fragile, superficiale. Gli opinion leader – politici, intel­lettuali, ma anche teologi, sacerdoti, catechisti – leggono i corsivi sulle prime pagine dei giornali laici e fiutano il ven­to che cambia direzione. Terrorizzati dalla paura di perdere il consenso della loro base – gli elettori, i colleghi, i parroc­chiani – preferiscono tacere. O nascondersi dietro formu­le ambigue del tipo “è un problema complesso”. Così, l’opinione pub­blica finisce con l’ascoltare solo la campana dei cattivi maestri.

8. Elaborazione di falsi bersagli

I radicali sanno benissimo che la società – come la natura – non facit saltus. I cambiamenti verso la dis­soluzione dell’ordine naturale devo­no avvenire gradualmente. Ma per provocarli bisogna fingere di pre­tendere tutto e subito. Così, Pan­nella andrà in tv assumendo inizia­tive clamorose – come ad esempio dichiararsi pronti a praticare con le loro mani la dolce morte – e in Par­lamento verranno depositate richie­ste di legalizzazione “estrema”.

9. Definizione occulta dei veri obiettivi

Nascostamente, i fautori della cul­tura della morte avranno pianificato con realismo gli obiettivi di breve e medio termine. Nella fattispecie, lo scopo era quello di “spostare” intere masse di uomini poli­tici su una posizione di pacifica accettazione del cosiddet­to “testamento di vita”. Senza lo scossone del caso Wel­by, sarebbe stato ancora possibile mettere in discussione le numerose ambiguità di questo strumento. Invece, ades­so, i radicali hanno messo a segno il loro capolavoro, ride­finendo lo scenario del dibattito: quelli che sono “per la vi­ta”, i “reazionari”, sono pronti a firmare anche domani mat­tina una legge sul testamento biologico, senza nemmeno verificare se così facendo si introduce nei fatti l’eutanasia; gli spiriti liberi e progressisti invece si battono per il dirit­to a morire.

10. Annebbiamento dei criteri oggettivi di giudizio

Bisogna sgretolare le resistenze all’eutanasia solleticando il ricorso alla decisione individuale: se io voglio morire, per­ché lo Stato me lo deve impedire? Come se il compito del­la legge fosse quello di assecondare sempre i desideri del singolo. Nello stesso tempo, si deve fare in modo che la morale sia spazzata via da un’unica norma: fai quello che ti senti. Perfino la lettera di Cesare Scoccimarro, 45 anni, stessa malattia di Welby, che ha scritto a Napolitano per chiedere di continuare a vivere, in questo modo è total­mente disinnescata. Uno vuole morire, un altro vivere. Be­nissimo – risponde con flautata tolleranza il profeta radica­le – rispettiamo la volontà di ciascuno. Con il che tramonta la possibilità di distinguere il bene dal male, il giusto dall’in­giusto, il delitto dall’atto lecito. II punto dì vista soggettivo come misura di tutte le cose. Non è solo una sconfitta della Chiesa: è innanzitutto la fine della civiltà giuridica e il trion­fo definitivo del nichilismo radicaloide, assunto come siste­ma di pensiero collettivo.

20 Dicembre 2006

 

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